Open Court: addio, e grazie, Key Biscayne (di Marco Mazzoni)
Con ancora negli occhi la splendida finale tra DelPo e Federer a Indian Wells, il mondo del tennis è già volato dall’altra parte degli States, nelle Keys di Miami per il secondo Masters 1000 in calendario. Sarà un’edizione particolare: per l’ultima volta il torneo si svolgerà nell’impianto di Crandon Park. “The Miami Open presented by Itau will move to a new home in 2019”. Così inizia l’articolo sul sito ufficiale dell’evento, che conferma il progetto della IMG (proprietaria del torneo) di spostare già dal 2019 la sede del Masters 1000. Ieri pomeriggio sono state scattate delle foto all’interno del Hard Rock Stadium (oggi casa dei Miami Dolphins di football), con Serena Williams ed altre autorità ad immortalare un simbolico inizio dei lavori, che in realtà si svolgeranno più avanti nel 2018. Stephen Ross, presidente della franchigia di football e nuovo partner dell’evento, si è detto entusiasta del risultato di aver mantenuto il torneo a Miami, e che farà del suo meglio insieme alle autorità per creare una struttura ancor più bella, efficiente ed accogliente. Secondo il progetto, la nuova casa del torneo sarà qualcosa di unico.
Il nuovo Miami Open
Saranno realizzati ben 30 campi (inclusi quelli per gli allenamenti), una “tennis oasis” con il più grande video screen mai realizzato per un torneo di tennis; un villaggio per gli sponsor con enormi spazi per l’intrattenimento; aree adeguate per logistica, parcheggio, divertimento dei fan e soprattutto per i giocatori. Il centrale avrà una capienza di 14mila posti, disegnati per la miglior esperienza possibile, e sorgerà all’interno dell’attuale stadio per il football. Le parole chiave per questa novità sono due: spazi e business. Da anni il torneo di Miami all’interno di Crandon Park è in “sofferenza”. L’impianto, concepito negli anni ’80, avrebbe bisogno di una ristrutturazione, ma lo spazio è quello che è: piccolo, soprattutto in rapporto alle nuove esigenze dell’ATP in fatto di aree per il villaggio, gli sponsor, la comodità di giocatori e pubblico. Uno spazio che non consente di allargare il business. E visto che il nostro amatissimo sport è soprattutto (ahinoi) un enorme moltiplicatore di dollari, ecco che il torneo è stato messo più volte in discussione, con il rischio concreto di esser ceduto altrove, a meno di un concreto piano di riorganizzazione e crescita. Gli emiri di Dubai erano già prontissimi a rilevare la data e costruire chissà quali amenità del deserto… Ma gli americani hanno trovato questa nuova partnership e realizzato un progetto che ha convinto tutti e rilanciato le prospettive dell’evento. Chissà che Miami non possa ripercorrere la strada di Indian Wells, altro torneo USA che a metà anni 2000 era in difficoltà, di fatto “venduto” ai messicani del ricchissimo Slim; per poi essere salvato con un colpo di coda last minute dall’allora direttore Charlie Passarell. Oggi IW è probabilmente il quinto (o sesto, dopo le Finals) evento dell’anno per importanza. L’ambizione di Miami è realizzare un rilancio del genere. Vedremo che accadrà nel 2019. Intanto ci apprestiamo a salutare il “classico” torneo della Florida, che ci ha regalato negli anni momenti di grandissimo tennis, tante storie e record curiosi. E’ il momento per ripercorrere la storia di questo torneo, che quando nacque fu una vera novità. Un torneo a suo modo unico, in una città altrettanto particolare.
La storia del Miami Open
Il padre del torneo è Butch Buchholz, ex Pro americano, semifinalista agli US Open 1960. Visto che nei primi anni ’80 gli Australian Open si svolgevano a fine anno (e spesso erano disertati dai big), la sua idea era quella di creare il primo grande evento della stagione in America, sfruttando l’ottimo clima della Florida all’inizio della primavera ed il classico “Spring Break” (momento di fermo scolastico e prima vacanza delle famiglie americane). Discusse della sua idea e del relativo investimento con la multinazionale Lipton, notissima casa produttrice di bibite. Buchholz, allora a capo dell’Associazione giocatori, incontrò il guru della Lipton proponendo loro la creazione di un “Wimbledon invernale”. Un evento di 2 settimane, importante e bello come uno Slam. L’accordo fu trovato sulla base di 1,5 milioni di dollari per 5 anni, con il nome dell’evento che sarebbe stato proprio il noto brand. A Miami non c’era una struttura adeguata, e si voleva partire immediatamente. Per questo fu deciso che il torneo si sarebbe svolto presso la Laver’s International Tennis Resort di Delray Beach, 50 miglia a nord della metropoli. L’intento di portare un po’ di Wimbledon nell’alto Caribe fu rispettato, coinvolgendo anche lo storico chairman dei Championships Alan Mills e il suo designer Ted Tinling. Con un montepremi faraonico, arricchito da una fetta dei diritti tv e commerciali appannaggio dei giocatori, tutti i migliori presero parte al torneo. Fu proprio l’ottima qualità del tennis in campo a vincere lo scetticismo generale che aleggiava, anche da parte degli stessi addetti ai lavori che non videro di buon occhio questa sorta di “quinto Slam”. Era ritenuta una provocazione proporre un torneo della durata di due settimane con 128 giocatori e giocatrici, una sfida agli Slam puramente commerciale. Senza una storia. Senza uno stadio. “Sarà un flop”, ecco il feeling all’epoca dell’annuncio. Tra lo scetticismo generale, Buchholz vinse la sua scommessa. L’ascesa del Lipton fu inarrestabile, anche grazie ad una prima edizione assai fortunata, con il “il botto” di una spettacolare finale femminile tra le star Martina Navratilova e Chris Evert (una delle loro sfide più belle di sempre), che vide il sold out sugli spalti e record di ascolti per la CBS. Dopo quel match tutti capirono che il vento era cambiato. Era nato il quinto torneo stagionale. Per mantenere il lancio straordinario della prima edizione era necessario crescere. E farlo subito. Nel 1986 ci si spostò a Boca Raton, fino ad arrivare nel 1989 nell’attuale location, anche se con strutture provvisorie all’inizio. La leggenda racconta che la scelta definitiva della sede fu una sorta di colpo di fulmine. Il direttore del torneo fu portato in tour in vari siti di Miami, alla ricerca di quello migliore per edificare il complesso. Quando varcò la Rickenbacker Causeway che collega la metropoli alle isole Keys, piccoli paradisi tropicali di fronte allo Skyline cittadino, restò così impressionato dalla bellezza dell’area da comprare l’intero lotto e progettare la nascita del Tennis Center di Crandon Park, a Key Biscayne. Buchholz raccontò in una intervista: “Mi sembrò di entrare in una cartolina, l’area era bella, grande, e già con alcune facilities che ci avrebbero aiutato nel metter su il complesso rapidamente. Pensai, è quello che stiamo cercando! Qua creeremo non solo un torneo, ma un luogo da favola che resterà negli anni e sarà il centro del nuovo tennis Usa”. 2 anni per avere i permessi e racimolare il budget, quindi i lavori, ritardati di un anno per via del tremendo uragano Andrew che nel ’92 devastò pesantemente i Caraibi e la Florida. Una terra splendida, non a caso meta prediletta di vacanzieri da tutto il mondo e scelta come residenza di lusso da tutti i “latinos” arricchiti che lasciano Mexico, Colombia, Venezuela e via dicendo per trasferirsi nello stato americano dove ormai lo spagnolo ha soppiantato l’inglese come lingua. Un vero paradiso in terra, con un clima eccezionale e una natura straordinaria, che ti stordisce per profumi, colori e sapori, e non lascia indifferenti anche i tanti vacanzieri (un classico una gita a Miami per unire tennis a turismo). Arrivati a Crendon Park si resta ammaliati dalla bellezza della vegetazione in cui l’impianto è immerso, con piante tropicali rigogliose a due passi dai campi da gioco, accarezzate della brezza del mare, indispensabile per resistere alla calura e scacciare nugoli di insetti che lussureggiano nel caldo umido delle isole, …non letali come i coccodrilli che si aggirano nelle zone esterne paludose.
Tornando alla storia del torneo, il primo match giocato a Key Biscayne si disputò l’11 marzo 1994, un match rosa tra Karin Kschwendt e Kathy Rinaldi. Diversi sono i record e curiosità dell’attuale Miami Open. Per anni è stato l’evento con il pubblico più numero dopo i 4 Slam. Non tutti ricordano che nel 2006 proprio a Miami venne introdotto l’instant replay per verificare in diretta l’esito di una chiamata di gioco: la prima fu di Jamea Jackson contro Ashley Harkleroad. Per ben tre volte la finale fu non disputata o totalmente compromessa: la prima nel 1989, quando uno sfortunatissimo Thomas Muster fu investito nel parcheggio da un ubriaco al volante, che gli spezzò una gamba mettendone a rischio la carriera (poi l’austriaco di ferro rientrò, riuscendo a vincere il torneo 8 anni dopo); nel 1996 Goran Ivanisevic si ritirò dopo pochi games per un violento attacco di torcicollo; nel 2004 l’argentino Coria gettò la spugna per forti dolori alla schiena, dovuti a calcoli renali.
Oltre al torneo, nel nuovo impianto fu portato buona parte del programma di sviluppo dei giocatori di alto rendimento della USTA, diventandone per anni il centro nevralgico. Del resto il tennis in Florida è proprio a casa. Grazie al clima incredibile che bacia lo stato tutto l’anno, qua sono nate come funghi decine di accademie, iniziando un inarrestabile pellegrinaggio tennistico da tutto il mondo da parte di giovani speranze che vedeno in queste strutture una sorta di porta per il Paradiso sportivo. Un trampolino verso il successo, seguendo gli esempi di Arias e Krickstein prima, Agassi, Courier, Chang e Sharapova poi, tutti usciti dalla struttura del guru Nick Bollettieri, tanto per citare solo la punta dell’iceberg. Vallo a spigare poi ai giovani talenti che questa sorta di Mecca è un po’ diversa da un luogo da sogno… Non propriamente un hotel deluxe dove lussereggiare giocando a tennis, ma strutture assai rigide con regimi duri e ritmi impossibili, a far selezione naturale tra i più deboli, ed ingrassare i conti in banca di procacciatori di talenti più o meno spregiudicati che promettono sicuri successi in cambio di un sogno pagato a suon di “verdoni”. Contraddizioni, come quelle di Miami, città simbolo di un paese che incarna il sogno americano per i vari popoli caraibici, punto d’incontro tra etnie che spesso mal si sopportano.
Miami, colori e noir
Qua non solo arrivarono i barconi di disperati in fuga dalla dittatura di Cuba e migliaia di immigrati latini, russi, perfino finlandesi e vietnamiti, ma anche tantissimi ricconi che scelgono il clima eccellente della Florida per vivere in santa pace gli ultimi anni della loro vita; un’altra “Sala d’attesa di Dio” come del resto è Indian Wells, ma con attorno una città tra le più vive e dinamiche d’America. Proprio nelle settimane del torneo a Miami è invasa da una marea di teenager che si lasciano andare in festini ad alto grado alcolico ed eccessi di ogni tipo, immortalati in tanti film (ed episodi di cronaca…); includendo anche il Winter Music Conference, il più importante evento musicale del mondo per la musica commerciale, con feste in ogni angolo della città e gare tra i più famosi DJ del mondo. I divertimenti in città non mancano proprio, anche per chi cerca un turismo più “classico” da abbinare al torneo di tennis. Miami è il porto principale negli Usa per le splendide crociere che solcano i Caraibi, ospita spiagge spettacolari con acque cristalline. Da non perdere le escursioni avventurose nelle Everglades (paludi con una natura selvaggia), il complesso Seacquarium, la opulenta Villa Vizcaya costruita da James Deering nel ‘900 e che riprende Villa Rezzonico di Bassano del Grappa, che insieme all’intero quartiere Art Decò può soddisfare gli amanti dell’arte. Fino alla colorata, chiassosa e divertente Ocean Drive, ricca di ristoranti e locali di ogni genere, icona degli eccessi cittadini visto che a pochi passi è facile imbattersi in molti homeless. Miami vanta uno dei tassi di povertà più elevati tra le città americane. Facile che poveri ed emarginati siano preda del crimine, soprattutto del business della droga, visto che tra i latini sbarcati in Florida non mancano i temutissimi Narcos. Piaga questa difficilissima da estirpare, visto l’enorme il giro di soldi (ed interessi) dietro al traffico degli stupefacenti. Come “stupefacente” fu la celeberrima battuta dell’Avvocato Agnelli a proposito di Miami e dei suoi traffici illegali: “Un giorno, un produttore di motoscafi annunciò di averne realizzato uno più veloce di quello dei contrabbandieri. Quella stessa sera fu ammazzato”. Il mitico Avvocato tirò fuori quest’aneddoto all’indomani del clamoroso omicidio dello stilista Gianni Versace, che proprio a Miami fu freddato nel ’97 davanti alla sua casa di South Beach. Il lato noir di Miami è diventato parte del suo fascino, anche grazie al cinema: dal mitico Antonio “Tony” Montana di Scarface interpretato da un Al Pacino superlativo, passando per la serie tv cult Miami Vice, ideata dal grande regista Michael Mann e resa celebre dall’attore Don Johnson, che correva per le highways di Miami a bordo di una Ferrari bianca a caccia dei narcotrafficanti; fino a CSI Miami, dove i colori vividi e le storie torbide della città sono diventate uno dei programmi più visti al mondo. Oggi Miami combatte anche contro un altro grande problema: l’innalzamento del livello dell’oceano, con intere parti della città che vengono tenute all’asciutto grazie a potentissime idrovore, in funzione 24h al giorno. Storie ed eccessi di una città assolutamente Yankee, in tutto e per tutto. Come il suo grande torneo, che un po’ ci mancherà nella storica location, dove si poteva ammirare da lontano lo skyline di Miami in mezzo a tramonti straordinari.
Marco Mazzoni
@marcomazz
TAG: Marco Mazzoni, Masters 1000 Miami, Miami, Miami Open, Open Court, Storia torneo di Miami, tennis e turismo
Molto bello
Sempre bello leggere un po’ di storia del tennis, grazie Mazzoni!
Gli articoli di Mazzoni sono sempre molto interessanti e coinvolgenti, mai casuali e mai privi di dati e ricorsi storici. Complimenti davvero!
Complimenti a Marco per il bell’articolo: quando la storia dello sport si mescola alla storia della società sapendone raccontare le sue trasformazioni. Ricordo bene la storia di questo torneo perché ai tempi leggevo da grande appassionato match ball e tutte le discussioni che ci furono sull’opportunità dell’evento. Ai tempi il tennis non era ancora entrato nell’era della globalizzazione come oggi, era comunque in grande trasformazione non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello politico e commerciale, e riuscire a imporre un toreo così lungo e difficile ma economicamente molto remunerativo non fu facile perché fu visto come una vera e propria sfida agli Slam. Oggi possiamo dire che questa sfida non è stata chiaramente vinta, ma il mondo del tennis ne è uscito cambiato per sempre, gli interessi sono aumentati in modo esponenziale E’stato il primo tassello della globalizzazione, il punto di non ritorno. Sul fatto che tutto questo sia stato in assolto un bene sarebbe da discutere in tutte le sue variabili e aspetti.
Complimenti. Cosa dire di più?
Primo ricordo(non lieto) legato ad Aaron krickstein,quando Tommasi commentava Aroon spesso ricordava quell’incidente di Key Byscaine(ha sempre giocato Infatti da li’poi con un tutore).
Bellissimo
Gran bell’articolo, mi hai fatto tornare alla mente quando ero piccolo e seguivo il tennis tra gli anni 80 e 90.
Fino al 1986 il torneo si giocò a Boca West ,dal 1985 a partire dalle semifinali si giocava 3 su 5 vinse rimontando due set a Scott Davis Tim Mayotte dal 1987 al 1990 tabellone a 128 con 32 tds 3 su 5 dal primo turno,da diversi anni anche la finale è 2 su tre.Io lo sposterei a fine aprile inizio maggio su terra verde,così come farei diventare l’open del Canada indoor in inverno per non sovrapporlo a Cincinnati e metterei due mille su erba ma nessuno fra Wimbledon e Parigi perche nelle tre settimane fra i due slam la prima e la terza sono vicine a i grossi eventi la seconda comporterebbe problemi di viaggio se mettessimo il Queen’s dopo Parigi e poca affluenza se si mettesse l’evento londinese la settimana precedente lo slam di Church Road
il progetto alternativo a KeyBiscayne è osceno. Il tutto in nome di un gigantismo insensato e unicamente dipendente da volontà di incassi sempre superiori. Trascorrere una giornata su un isolotto in mezzo alla natura a confronto di una in uno stadio da football diviso in 4 campi ove la gente osserva diverse partite rumoreggiando in contemporanea (mentre gli altri, i meno fortunati, passerebbero la giornata in un parcheggio) è tutto meno che un passo avanti. E’ regresso. E’ malattia. E’ stupidità.
Straordinario articolo. Bravo Mazzoni.