Spacca Palle: Italiani & Australian Open, una storia con poco amore
“Ooooooh, Bongo bongo bongo, stare bene solo al Congo non mi muovo no no…”. Ore 1.00 del terzo lunedì di gennaio. Il cuore della notte è spaccato dalle inconfondibili voci di Gianni & Rino, che dal centrale di Melbourne intonano con armonia incerta ma goliardia totale le note della storica canzone del dopoguerra, resa celebre da Nilla Pizzi e Luciano Benevene (e Renzo Arbore poi). Un tocco di simpatia – e più di un pizzico di malinconia oggi nel ricordare i siparietti dei due… – ad aprire di fatto la stagione tennistica.
Nottata insonne inseguendo i primi scambi degli Australian Open, a placare l’astinenza più lunga, quella della pausa di fine anno. Il tutto consumando dosi industriali di caffè, o semplicemente scariche naturali di adrenalina, nel silenzio della casa e nel buio della notte. I problemi di scuola e lavoro sono lontanissimi in quei momenti, lontani quanto l’Australia stessa.
In quella magica prima notte degli Australian Open si vive un rapporto intimo, privato, che non si può raccontare a parole. Roba da appassionati veri, incomprensibile per una persona non contagiata dal nostro morbo. Passare davanti alla tv la prima notte degli Aussie Open è un piccolo rito che in tanti consumano da anni, immancabile per chi ama visceralmente lo sport del corri e tira. Si aspetta a gloria lo Slam australiano perché è un universo a se stante, un torneo a suo modo magico e unico, dove tutto è a tinte forti. Il paese più lontano dalla nostra cara Italia, la trasferta che si sogna come viaggio di una vita, per stare appollaiati in mezzo al pubblico più colorato e allo stesso tempo molto competente; magari riparandosi dal sole killer di laggiù con un cappellino da legionario made in Lendl, sorseggiando una birra ghiacciata insieme agli svedesi (purtroppo oggi meno presenti di un tempo) che amano svernare al calduccio e diventano folklore puro; oppure perdersi tra le orde di ciprioti che inneggiano all’idolo Baghdatis, che proprio a Melbourne Park si rivelò al mondo in una delle favole tennistiche più dolci degli ultimi anni. Mille sono i motivi per amare gli Australian Open e seguirli match dopo match, anche di notte. E’ una piccola follia, ma consiglio a tutti di provare a vivere Live l’intera prima nottata dello Slam di Melbourne, anche senza le risate di “Bongo bongo bongo” e anche se resistere in ufficio all’indomani sarà una sofferenza.
Purtroppo ad acuire il peso della notturna sofferenza ci pensano quasi ogni anno gli azzurri, che storicamente agli Australian Open non brillano.
Rare le edizioni degli ultimi 30 anni in cui i nostri tennisti sono stati protagonisti arrivando alla seconda settimana (impresa vera), o anche solo passare in buon numero il primo turno. Per questo viviamo con una certa negatività ogni edizione, e aspettiamo con un certo timore quella che sta per scattare poiché il nostro Andreas Seppi è chiamato a difendere l’eccellente risultato del 2013 e non pare in grandi condizioni; come Fognini, uscito malconcio da Chennai. Tutti ricordiamo nitidamente la cavalcata esaltante e sofferta dell’altoatesino fino agli ottavi, dove trovò Chardy per un posto ai quarti. Arrivò a quel match stremato, dopo aver sconfitto in cinque tiratissimi set prima Istomin al secondo turno e quindi Cilic al terzo. Andy partì bene contro il francese, strappando il primo set per 7-5 con un gran gioco sul 5 pari. Chiuso il primo parziale, si spense la luce. Le energie spese nei turni precedenti l’avevano svuotato, mentre Chardy prese ritmo al servizio e iniziò a sparare drittacci con continuità, chiudendo in quattro set.
Seppi non riuscì ad uguagliare il record di Cristiano Caratti, che nel 1991 si rese protagonista del torneo della vita, issandosi ai quarti di finale, miglior prestazione di un italiano nel primo Slam dell’anno.
A ripensare a quell’impresa si percepisce ancor più come e quanto è cambiato il tennis da allora. Caratti in campo era leggero, di fisico e di colpi, ma riuscì quasi misteriosamente ad intuire le traiettorie dei rivali e vincere un match dopo l’altro. Con un tennis coraggioso a tutto campo e non buttando via una palla, mulinava brevi falcate ad altissima frequenza, trovando eccellenti appoggi ed il timing ideale per impattare tutta la forza delle palle degli avversari e rimandarle in modo sapiente, mai banale. Ebbe sì un pizzico di fortuna, infilandosi in un discreto corridoio di tabellone, ma se la guadagnò tutta in campo; soprattutto nel capolavoro della vittoria agli ottavi contro il bombardiere Krajicek, superato al quinto set. Ai quarti di fronte si trovò non un campione invincibile ma Patrick McEnroe, fratello “scarso” del grande John, di fatto anche lui al torneo della vita. In campo la tensione è altissima. Il match va a strappi, a tratti bello, altre ricco di errori. Cristiano perde 6-2 al quinto set, mancando di poco una semifinale clamorosa che l’avrebbe portato a diventare il quarto italiano di sempre semifinalista in uno Slam ed incrociare la racchetta contro Boris Becker.
E proprio “Bum Bum” se la vide bruttissima sempre in quell’edizione ’91 degli Aussie Open grazie ad un altro azzurro, Omar Camporese. Il bolognese lo affrontò al terzo turno, giocando probabilmente il miglior tennis della sua carriera. Omar prese quel match di petto. Pareva quasi in trance mentre serviva con forza e precisione, tanta quanta Boris, massacrandolo dal fondo con dritti e rovesci incredibili. Un match che ogni appassionato nostrano ricorda con piacere e dolore, visto che Camporese arrivò più volte ad una manciata di punti dal successo, ma che finì per perdere 14-12 al quinto set. Lo stesso Boris dichiarò che poche volte in carriera aveva sofferto e si era divertito tanto come in quella partita, anche grazie alle magie balistiche del nostro Omar.
Il ricordo della mitica annata ’91 resta a noi tanto caro perché lo Slam down under non è mai stato amico dei nostri colori. Ancor più indietro di quell’edizione in pochissimi rischiavano la trasferta in Australia. Era costosa e mal collocata in calendario, con già troppe battaglie sulla terra battuta ad appesantire le ginocchia; e poi fino all’87 si giocava sull’erba, mal digerita anche ai nostri campioni… A Melbourne arrivavano al massimo 2-3 giocatori in tabellone, ed era già qualcosa se ne portavamo uno al secondo turno. In annate come 1983, ’84 o ’85 (quando il torneo stava rinascendo con le presenze degli svedesi, Lendl, Curren ed altri) il nostro tricolore non era nemmeno issato: zero giocatori in tabellone. Andando ancor più addietro la situazione era pressoché simile. Almeno a livello numerico, il problema pare risolto. L’edizione che sta per scattare vede ben 11 italiani al via delle “quali”, secondo paese dopo l’Australia che ne vanta 13. Come cultura siamo cresciuti.
Negli ultimi 30 anni gli azzurri non ci hanno abituato a grandi prestazioni negli Slam, Parigi inclusa; ma è indubbio che l’Australia non ci ha mai portato fortuna. Tuttavia sulla scia di quell’incredibile 1991, gli anni ’90 a Melbourne non sono stati eccellenti ma nemmeno tutti da buttare. Eccetto il pessimo ‘93 (tutti fuori al primo turno), Furlan ha raggiunto gli ottavi nel 1996, sconfitto in tre set dalle bordate assassine di Enqvist; nel 1995 Furlan e Pescosolido arrivarono al terzo turno, con altri 2 azzurri al secondo; nel ’98 fu Gaudenzi ad issarsi al terzo turno, e altri 2 italiani si fermarono al turno precedente; mentre nel 1999 fu il tennis d’altri di tempi di Pozzi a portare un azzurro al terzo turno. Non grandi cose, ma c’eravamo anche noi. E’ con l’arrivo del nuovo secolo che il rapporto tra azzurri e Australia s’è guastato. Di brutto.
Dal 2000 al 2012 non siamo riusciti a portare uno straccio di giocatore al terzo turno, incluse due annate orribili (2010 e 2005) in cui tutti sono usciti al primo turno; malissimo in particolare nel 2010, con nemmeno un set vinto in cinque match maschili, una delle peggiori Caporetto della storia recente del nostro italtennis in uno Slam. Senza perdersi in complesse statistiche, la media down under è un paio di giocatori al secondo turno, sconfitti piuttosto seccamente, con Seppi che è sempre stato mediamente il migliore.
Perché gli azzurri quasi sempre hanno deluso in Australia? E perché eccetto Seppi 2013 la tendenza è stabile sul basso? Non facile capirci qualcosa, il fenomeno è complesso. Più che cercare risposte, stavolta mi pongo domande, provando almeno ad interpretare. Sarebbe estremamente interessante se tennisti, coach o ex tennisti provassero a dare una risposta, parlando apertamente della loro storia “con l’Australia” e come durante la loro carriera hanno approcciato il torneo di Melbourne, ed in genere la spedizione nel continente australe.
Una sensazione è che storicamente gli azzurri abbiano sempre snobbato l’Australia, andando senza la giusta convinzione a prendere quel che viene, “tanto la stagione è lunga, anzi appena iniziata”.
Ripeto, una sensazione. Forse il tutto deriva dal nostro atavico “terra-centrismo”, che fatichiamo a superare. E’ indubbio che sia a livello di formazione che di skills, quasi tutti i nostri migliori giocatori siano da sempre molto sbilanciati sull’amata terra rossa, condizioni migliori per far esplodere le proprie qualità. Erba o cemento cambia poco: pochissimi azzurri nascono con grandi servizi a sfruttare la velocità dei rimbalzi, o con atteggiamento aggressivo già dalla risposta a prendere campo. Siamo creativi tecnicamente buoni, abili a sfruttare i cambi di ritmo e la tattica del rosso, piuttosto che attaccanti dentro. Quindi per arrivare al top nel periodo della stagione europea sul rosso, forse la preparazione è sempre stata “troppo” tarata sul lavoro ideale a trovare la miglior condizione tra aprile e giugno, proseguendo poi anche per tutta l’estate, visto che di discreti tornei su terra ce ne sono fino a settembre.
Un “azzardo” quindi anticipare il picco di prestazione già da gennaio, addirittura sull’insidioso veloce… Una mentalità questa che necessariamente si sta cercando di cambiare, visto che percentualmente i punti disponibili in stagione su terra battuta sono intorno al 30% del totale, ed alcuni eventi da sempre giocati sui campi in rosso stanno vacillando o già passati al duro (Acapulco). Se questo è stato, lo ritengo un errore. Iniziare bene una stagione è molto importante. Vincere aiuta a vincere, sempre e in tutti gli sport, a maggior ragione nel tennis dove la componente psicologica legata alla fiducia è essenziale. Inoltre da qualche anno i primi tornei in calendario e soprattutto le settimane in America Latina propongono eventi di buon livello ma “abbordabili” per giocatori motivati e ben preparati; quindi partire già da gennaio in buonissima forma non è affatto un azzardo. Inoltre focalizzare troppo l’annata su un periodo di tempo limitato è molto rischioso: l’infortunio è sempre dietro l’angolo, e mille fattori ed imprevisti possono portare problemi, come uno scadimento di forma o qualche guaio tecnico o agonistico.
Un’altra motivazione che potrebbe aver frenato i nostri è il clima australiano, così violento e diverso dal nostro, spesso aggravato da venti impetuosi e dal passaggio estremo dal nostro inverno. Tuttavia le condizioni diverse dell’Australia sono uguali per tutti. Anche campionissimi come Djokovic le soffrono, ma non mi pare una ragione sufficiente a deprimere le prestazioni di un intero sistema paese tennistico.
Dal 1988 anche a Melbourne si gioca sul cemento, un duro che è cambiato più volte, molto diverso da quello americano ma sempre duro è. Se prendiamo in esame anche l’US Open, secondo Slam sul cemento, purtroppo gli italiani storicamente non è che siano andati molto meglio. Anche a New York si giocava sull’erba (con risultati assai modesti per i nostri); poi si passò alla terra per una manciata di stagioni (e nel ’77 Barazzutti sfruttò le condizioni amiche issandosi alla semifinale, nostro miglior risultato di sempre) e quindi sul cemento, con gli azzurri di nuovo in difficoltà e risultati complessivamente non molto diversi da quelli di Melbourne. Numeri simili = indizio che tende a diventare una prova: sul duro 3 set su 5 i nostri fanno fatica. La facevano ieri, continuano a farla oggi.
Per quanto l’Australia sia nemica e lontana, per fare uno scatto in avanti “down under” – come altrove dal rosso – serve forse una svolta, a livello non solo tecnico ma di mentalità. Servono giocatori che siano in grado di servire molto meglio, la cui battuta sia un punto di forza e non di debolezza, così come la risposta; tennisti più aggressivi e continui nella spinta, non solo tattici o giocolieri raffinati (oh, quelli ben vengano sempre! Ma non solo quelli…); giocatori con due fondamentali piuttosto equilibrati e con un’arma importante, in grado di procurare winners diretti. Una svolta copernicana del “terracentrico” modo di concepire il nostro sport . Non dico che non lo si stia facendo; ma per produrre risultati importanti è necessaria pazienza, tanto lavoro e che questo scatto in avanti verso il “veloce” sia operato a livello di sistema, non di casi isolati. In questo filone pare interessante il progetto “Campi Veloci”, lanciato della nostra Federtennis circa 3 anni fa, e di cui mi ripropongo di parlare diffusamente, con numeri alla mano.
Di sicuro tanti circoli hanno avuto col progetto un incentivo concreto nel costruire nuovi campi in duro convertendo quelli in rosso; ma la vera svolta deve essere nella mentalità, nel sensibilizzare maestri, allenatori, giovani e famiglie sull’importanza di sviluppare la crescita, fin dalla più giovane età, variando tra amata terra battuta e altre superfici; arricchendo così il bagaglio tecnico e mentale dei ragazzi e facendogli capire che il tennis sta diventando uno sport sempre più veloce, con sempre meno tempo. E che controllare il tempo di gioco con aggressività sta diventando il vero winner. Non è una strada facile, soprattutto quando si viene da tanti di anni di “certezze”. Qualcosina all’orizzonte pare già muoversi in questo senso.
L’attesissimo Quinzi per esempio pare essere un giocatore molto interessante per il cemento attuale, veloce ma non velocissimo, a far esplodere il suo rovescio fantastico; e con lui altri. Chissà che la prossima generazione di azzurrini, quelli nati tra ’96 e 2000, non possa essere quella che faccia cambiare il vento. E forse anche la nostra storia agli Australian Open.
Marco Mazzoni
TAG: Australian Open, Australian Open 2014, Cristiano Caratti, Fognini, Gianluigi Quinzi, Marco Mazzoni, Omar Camporese, Quinzi, Seppi, Spacca Palle
Sì, negli anni ’70 in realtà in Australia, giocandosi a Dicembre e senza che nessuno avesse già più la possibilità di fare il Grande. Slam, non ci andava nessuno, non solo gli italiani e proprio per quei motivi si decise di cambiare la data del torneo e di metterlo ad inizio e non a fine stagione…
In ogni caso ottimo articolo, come sempre….e quanta nostalgia per il bingo bongo di Clerici e Tommasi… 🙁
@ Fabio Ferremi (#986644)
Hey Fabio ciao, grazie del l’apprezzamento 🙂
Vado a memoria, ma mi pare che nei ’70, quando non eravamo proprio gli ultimi, down under non ci andavamo praticamente mai, anni e anni senza 1 Ita presente, e quelli che ci provavano non erano i migliori. Un vero peccato….
Sempre bello e piacevole leggere gli articoli di Marco Mazzoni, una garanzia di qualità e competenza tennistica sia sotto il profilo tecnico che quello storico. Nel 1935 Giorgio De Stefani, allora Numero Uno Italico, affrontò la perigliosa trasferta per incontrare Fred Perry. Subì un Triplice 60 , già allora la relazione azzurra con i Campionati Australiani si annunciava Ostica…
@ GianlucaPozziPerSempre(exForever) (#986608)
ciao,
grazie del commento! perché peccato? 🙂
abilità
Bell’articolo complimenti. Peccato per l’utilizzo di skills anzichè….a proposito qual’è il termine italiano corrispondente ?
Interessante, come sempre, l’articolo del bravo Marco Mazzoni.
Bel pezzo, ben scritto. Complimenti
Seppi se esce al primo turno quante posizioni perde?
Seppi é arrivato agli ottavi di finale a Roland Garros e a perso al quinto set contro Djokovic, ma comunque concordo nel fatto che sia Seppi che Fognini potrebbero far bene in Australia…
gran bell’articolo complimenti! per me che sono un fanatico dell’australia! speriamo in un wind of change 😛
dato che gli italiani snobbano questa meravigliosa trasferta, tennistica ma non solo, soprattutto
Beh non mi sembra che Fognini non abbia i mezzi e modi per procurarsi vincenti diretti con i entrambi i fondamentali ,eppure fatica. È tutto molto relativo. Seppi dichiara di preferire la terra rossa e poi al RG non è mai andato oltre il terzo turno(mi sembra),mentre a Melbourne si è issato fino agli ottavi pur,lui si,non avendo colpi a rimbalzo definitivi. Ad ogni modo fiducia a Fognini,unico vero talento italiano.
visto che si cita Quinzi e si dice che questa superficie gli sia adatta..non era il caso di chiedere una wc per le quali???non mi pare ci siano d fenomeni in questo tabellone…poi tra l’altro a inizio anno ci scappano sempre le sorprese…