Archeo Tennis: 6 febbraio 1993, la scomparsa di Arthur Ashe
6 febbraio 1993, una data infausta per il mondo del tennis. Esattamente 30 anni fa Arthur Ashe morì a New York per una polmonite correlata all’AIDS, malattia che lo sfortunato campione statunitense aveva contratto per colpa di sangue infetto ricevuto alcuni anni prima in una trasfusione. Tre volte campione in tornei del Grande Slam, ex capitano del team USA di Coppa Davis, Ashe fu soprattutto una grande persona, estremamente colto, attivista per i diritti civili, amato e rispettato oltre il rettangolo da gioco e lo sport della racchetta. È stato un grande tennista, elegante, offensivo, dotato di un tennis completo e spettacolare, sempre irreprensibile in campo, esempio di lealtà e correttezza. È stato un simbolo del nostro sport per dedizione alla disciplina, al lavoro, al rispetto, riuscito ad emergere in un Paese ancora terribilmente ancorato su un razzismo diffuso grazie alle sue doti umane di empatia e grande cultura. La sua eredità è certamente una delle più importanti nella storia del gioco.
Arthur Ashe nacque nel 1943 a Richmond, in Virginia. Suo padre gli proibì di giocare a football, considerato sport troppo violento, così il giovane Arthur per assecondare la sua passione per lo sport iniziò a giocare a tennis a 7 anni sui campi pubblici di Brookfield Park, dove il suo talento e coordinazione furono ben presto notate dal miglior giocatore di colore di Richmond, Ron Charity. Fu il suo primissimo coach, gli insegnò le basi della tecnica e in seguito lo presentò al Robert Walter Johnson. Quell’incontro fu decisivo per la vita e carriera di Arthur: Johnson era stato l’allenatore e mentore di Althea Gibson, la prima donna di colore a trionfare nei tornei del Grande Slam. Robert plasmò il tennis di Ashe, ma fu altrettanto importante sul piano della sua crescita umana, poiché lo preparò ad affrontare le terribili difficoltà di uno sport (e di un ambiente) ancora terribilmente razzista, in un’epoca in cui la segregazione razziale era lo status quo, una triste normalità. Ashe divenne un esempio di comportamento, un vero punto di riferimento per come riuscì ad affrontare le difficoltà sociali dei suoi anni, riuscendo ad eccellere nonostante ostacoli di ogni tipo.
Nel 1963, Ashe divenne il primo giocatore afroamericano a vincere il titolo nazionale indoor junior e gli fu assegnata una borsa di studio per il tennis all’Università della California, a Los Angeles. Al college completò definitivamente il suo gioco grazie ad allenamenti con il suo idolo, Pancho Gonzales. Sempre nel 1963 divenne il primo giocatore di colore ad essere selezionato nella squadra di Coppa Davis degli Stati Uniti. Il primo successo in un torneo dello Slam arrivò a US Open 1968, quando in carriera aveva già vinto 31 titoli, approdando secondo due volte in finale agli Australian Open (battuto da Roy Emerson nel 1966 e 1967).
Quel successo del settembre 1968 rappresentò un evento storico: infatti la sua vittoria contro Tom Okker nella finale di New York (14-12 5-7 6-3 3-6 6-3 il punteggio della durissima partita) lo elesse a primo giocatore maschio afroamericano ad alzare un trofeo Major. Questo straordinario – e meritatissimo – risultato non fu solo il coronamento di una carriera, poi proseguita per anni con altri grandi successi, ma gli consentì una grandissima visibilità che sfruttò in modo sapiente per difendere il movimento per i diritti civili dei neri in America, degli esclusi, degli emarginati. Ashe era l’esempio di uno che ce l’aveva fatta, forte delle sue forze, della sua determinazione, della sua cultura. Paradossale che in quel primo torneo di Forest Hills nell’era Open, non potè ricevere alcun premio in denaro poiché iscritto come dilettante, tanto che se andò da New York con in tasca solo 280 dollari (quattordici giorni di gara, a 20 “verdoni” al giorno).
“Quel torneo è stato una transizione nella sua vita”, raccontò suo fratello Johnnie alcuni anni fa. “Dopo quella vittoria non era più solo un tennista per il pubblico. Perché quelli che non lo conoscevano non si rendevano conto di quanto fosse intellettuale Arthur, ma grazie al successo e alla grande visibilità iniziarono a scoprirlo. Penso che vincere e diventare il campione degli US Open abbia aperto una direzione completamente nuova alla sua vita perché sapeva che da lì in avanti sarebbe stato ascoltato”.
Arthur Ashe vinse altri due titoli del Grande Slam: Australian Open 1970, e Wimbledon 1975, torneo nel quale riuscì finalmente a battere Jimmy Connors in finale, uno dei sui grande rivali in quegli anni, persona totalmente agli antipodi rispetto al suo modo di intendere la disciplina e la vita. La sua cavalcata vincente in quell’edizione dei Championships è ancora scolpita nella memoria di coloro che riuscirono a viverla. Ashe, vicino al suo 32esimo compleanno, non aveva mai sconfitto Connors nei tre incontri precedenti e stava ancora inseguendo il suo primo titolo a Wimbledon, con nuovi forti e giovani concorrenti in ascesa, come Borg, che da lì a poco dominò il torneo. Il suo tabellone si aprì, con Nastase eliminato al secondo turno, Rosewall sconfitto al quarto turno e Vilas eliminato nei quarti di finale. Arthur salì di livello, giocando tre match fantastici dai quarti, arrivando probabilmente al suo massimo in carriera. Sconfisse Borg nei quarti di finale in quattro set, quindi superò in semifinale Tony Roche 6-4 al quinto set. Nel match per il titolo, di fronte la testa di serie n.1 e campione in carica Jimmy Connors, contro il quale non aveva mai vinto. Quel match di Ashe fu il suo capolavoro, a detta dei commentatori dell’epoca (Rino Tommasi) forse la sua migliore partita di sempre per strategia, colpi e condizione atletica. Ribaltò il pronostico della vigilia vincendo per 6-1 6-1 5-7 6-4. Incredibile come sia riuscito a reggere il tennis di pressione del suo giovane avversario difendendosi con ordine da fondo campo, quindi attaccare con dei rovesci slice tanto profondi quanto precisi, che misero in crisi il passante assai temibile di “Jimbo”. Ashe volava in campo, letale sulla rete, pronto a cambiare continuamente effetti e profondità dei colpi, tanto da non dare mai ritmo a Connors e distruggere la forza della sua risposta grazie ad un rendimento della prima di servizio eccezionale. Quella vittoria resta una delle più iconiche Wimbledon, anche sul piano del gioco, non solo perché vinse per la prima volta un afroamericano. “Ho sempre pensato di poter vincere quel torneo”, dichiarò Ashe in seguito. “Ero fiducioso perché stavo giocando bene”. Quel successo a Wimbledon ebbe un’incredibile risonanza e aiutò Ashe nella sua battaglia per i diritti civili. Infatti molti vedevano il campione impegnato in due campi: quello da tennis, e l’altro non meno importante di paladino in tutto il mondo contro ogni forma di discriminazione.
(gli highlights della finale di Wimbledon 1975)
L’ultimo grande risultato sportivo di Arthur è stata la finale al Masters 1977, dove fu sconfitto in finale dall’astro nascente John McEnroe. Nel 1979 Ashe fu colpito da un infarto, che lo portò a sottoporsi a un’operazione di bypass quadruplo. Una situazione che lo spinse, a malincuore, ad appendere la racchetta al chiodo nel 1980. Divenne l’anno successivo capitano della squadra di Coppa Davis degli Stati Uniti, ruolo che ricoprì fino al 1985. Soffrì molto in quel periodo, grato per essere il capitano della selezione nazionale ma dovendo gestire in panchina il comportamento di Connors e McEnroe, non certo il linea con quello che Ashe aveva tenuto per tutta la propria carriera. Vinse due Coppe da capitano, ma all’inizio del 1985 rassegnò le dimissioni, stanco del comportamento eccessivo del miglior tennista del suo Paese, McEnroe, protagonista di terribili sceneggiate nell’84. Una scelta che, ancora una volta, racconta molto di che razza di persona fosse Ashe, un uomo devoto alla correttezza e allo stile. Nel 1985 entrò nell’International Tennis Hall of Fame.
Nel frattempo le sue condizioni di salute erano peggiorate. Nella propria famiglia molti erano stati i casi di problemi al cuore (sua madre morì giovanissima), e Arthur nel 1983 subì un secondo intervento al cuore. Quasi sicuramente durante quel periodo di convalescenza, nel quale fece ricorso ad alcune trasfusioni di sangue, nel suo corpo entrò del plasma infetto che lo portò ad ammalarsi del virus HIV e quindi contrarre l’AIDS, malattia della quale allora si sapeva ancora ben poco. Ashe tenne segreta la malattia il più a lungo possibile, ma nell’aprile 1992 scioccò il mondo del tennis annunciando pubblicamente di essere malato. Il suo fisico era già fiaccato, tanto che dopo soli 10 mesi dall’annuncio, il 6 febbraio 1993, morì di polmonite all’età di 49 anni.
Nel 1988 pubblicò una libro intitolato “A Hard Road to Glory: A History of the African-American Athlete” fatica letteraria che considerava un risultato più importante di qualsiasi suo successo nel tennis, perché gli permise di lasciare una testimonianza indelebile sulle proprie battaglie, in campo e soprattutto fuori dal campo.
Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo straordinario tennista e persona, consiglio due libri:
“Giorni di grazia, la mia storia”, traduzione del suo libro (ADD editore)
“Il successo è un viaggio. Arthur Ashe, simbolo di libertà” – Alessandro Mastroluca (Ultra Sport)
Marco Mazzoni
TAG: archeo-tennis, Arthur Ashe, Livetennis Magazine, Marco Mazzoni
6 commenti
Che bella foto, postura elegantissima.
Quando il tennis era ancora eleganza! In suo onore comprai nel 1977 la sua ingiocabile Head che fini’ presto frantumata .. non per la potenza dei miei colpi ma perché la fibra era all’epoca agli albori e il telaio “scoppiava” letteralmente dopo un certo numero di stecche! Nostalgia per quel periodo a cavallo fra tennis tradizionale e il nuovo corso. Periodo di grandissimi personaggi. Ashe era tra i più eleganti di un tennis che oggi non c’è più .. servizio, slice, volée.
Già il fatto che abbia sottratto un trofeo di Wimbledon al detestabile Connors per me lo rende un grande, Grandissimo, indimenticabile, di questo gioco.
Grande.
Siamo in pochi ad avere vissuto quell’epoca e ad avere visto qualcosa di lui (il tennis non era seguitissimo in Tv)
Eleganza al massimo livello
In campo e fuori
Ho letto il primo dei libri consigliati da Mazzoni. Molto interessante e meritevole. Non solo per capire Ashe, ma anche il mondo in cui è vissuto. Grazie a Livetennis per averci ricordato un grande uomo.