L’importanza delle pause nel tennis
Si dice che negli sport di squadra l’impatto mentale sia meno rilevante rispetto allo sport individuale, ma forse riflettere sulle analogie può aiutarci a capire meglio cosa succede nella mente dei tennisti nei momenti di maggiore tensione emotiva.
La nazionale italiana di calcio si è trovata ad affrontare il match contro l’Austria con tutti i favori del pronostico. Arrivava da tre match vinti con convinzione, la stampa già parlava di finale certa e la pressione e le aspettative pre-gara si facevano sempre più pressanti. L’Italia aveva tutto da perdere, l’Austria praticamente nulla, e questo probabilmente ha fatto sì che la differenza qualitativa tra le due squadre si assotigliasse al momento del fischio d’inizio. E così è stato sino ai tempi supplementari. l’Austria era al massimo della carica agonistica, l’Italia al minimo, sconcertata da quel che accadeva. Si andava a una sorta di set finale, con la favorita in balia dell’avversaria.
Poi qualcosa è cambiato, e quella pausa di cinque minuti ci ha messo del suo, cambiando l’equilibrio emotivo della sfida. l’Austria forse sentiva inconsapevolmente di aver raggiunto il suo obiettivo, e così la trance agonistica è andata a calare, come capita tra un set e l’altro in un campo da tennis. I valori in campo si sono ristabiliti, e poi il gol di Chiesa ha ribaltato la situazione, restituendo convinzione alla squadra più quotata, che alla fine ha portato a casa il match. Se sostituiamo il campo da calcio con quello da tennis, e la “mente collettiva” con quella individuale, ci accorgiamo che forse le dinamiche non sono poi così diverse. E marcano una netta differenza tra chi è campione e chi ancora non lo è diventato, tra chi ha raggiunto un piccolo traguardo e si sente appagato, e chi invece non ci sta, e sfrutta anche i momenti morti per ritrovare se stesso e le proprie convinzioni.
Chiesa rappresenta forse quel reset mentale che solo i grandi campioni del tennis sono in grado di fare, che trovano energie nuove quando un attimo prima mente e corpo credevano di non averne più, superando anche gli ostacoli più complicati, e a volte inaspettati, che anche un match sulla carta semplice può riservare. È la gestione delle pause, che nel tennis rappresentano l’80% della durata di ogni incontro, ma di cui spesso si sottovaluta l’importanza.
Dal punto di vista cognitivo, la pausa permette di smorzare l’attivazione dell’amigdala, che disattiva il nostro cervello pensante, la neocorteccia, per favorire una risposta immediata al pericolo. Attacco, fuga, o paralisi. E di fronte alla vergogna, quando il vissuto dominante è il senso di inadeguatezza, la terza opzione è la risposta più probabile. Come accadde a Berrettini nel primo scontro a Wimbledon contro Federer. Tuttavia, quando si supera un evento di questo tipo, qualcosa dentro si sblocca: è quel “click” che fornisce la consapevolezza di poter sopravvivere anche ad eventi sportivi percepiti come “drammatici”, che dà la sensazione di potersi confrontare alla pari con chiunque, che trasforma il tennista in campione.
Dott. Marco Caocci
Psicologo
TAG: Matteo Berrettini, Notizie
Poi il Berrettini che incontra Federer nel 2019, un Federer ancora in grande spolvero, berretto perde perchè l’altro era all’epoca molto più forte.
La psicologia è importante , ma ha il difetto che troppo spesso “vuole avere ragione per forza” !
Caro dottore, nel Suo articolo ci sono 2 “se” di troppo.
Ci sono stati dei cambi che già a metà del secondo tempo hanno dato i loro frutti, una squadra più fresca e più fisica ha potuto reggere l’impatto. più che la pausa che c’è stata per tutti
per le donne a una certa età ci vogliono delle pause di meno.
Ma perché ci venite a sbomballare le balle con il calcio anche in questo sito? A me non me po frega de meno. Poi sono due sport opposti, nel tennis c’è una prestazione ogni manciata di secondi, nel calcio ri butti a terra e con le pause ci fai notte.
Le pause Thè in England, sono fondamentali.
se pensiamo alla partita Francia Svizzera bisogna rivoluzionare tutto il ragionamento…….
@ Adimarirobi (#2856485)
Come suggerito da Hanin e Syrja (1995), i processi emozionali possono seguire, regolare e sostenere l’azione sportiva, ma anche disturbarla e persino bloccarla.
Brad Gilbert nel suo libro cita Lendl ed i suoi tic (presunti) volti a “rallentare” il tempo. Lo definisce il “momento della tartaruga”, ovverosia quando un giocatore frena l’impeto di un avversario in fase positiva. In particolare descrive bene un suo match con il ceco(ex in realtà) che sotto nel punteggio, ed accingendosi a servire,faceva rimbalzare la palla, toglieva le sopracciglia, poi mano in tasca per recuperare della segatura, altri rimbalzi, altre sopracciglia ( erano molte) e poi… Ace.
Gilbert dice ” Non l’avevo mai battuto, ero in vantaggio ed in quel momento capii che avrei perso ancora”.
Grazie! Bellissima analisi.
è da apprezzare il tentativo di innestare nell’analisi delle performance sportive un substrato di neurofisiologia, che però se non maneggiato con cura, potrebbe solo dare informazioni parziali o fuorvianti.
in primis direi che la “pausa” di per sé, certamente utile in quanto defatigante per il sistema muscolare, non ha alcuna valenza per far “riposare” l’amigdala.
in letteratura medica l’iperattivazione dell’amigdala e conseguente sovraccarico viene riportata in casi di lesioni o traumi di una certa rilevanza.
ergo non sono le normali e fisiologiche attivazioni dell’amigdala indotte (in ambito sportivo) principalmente dalla paura di perdere o fallire ( il match, il punto, il servizio, la strategia, ecc) a causare “affaticamento” con conseguente perdita nella prestazione.
anzi uno stato ottimale di arousal è auspicabile.
sono bensì le emozioni positive e negative percepite dall’atleta, e la loro intensità, ad incidere sulla prestazione in maniera funzionale o disfunzionale.
su tutti Hanin, 2000.
saluti.
Bella spiegazione Dottore. Però il paragone con Chiesa non mi sembra del tutto calzante perché è entrato dalla panchina e quindi aveva qualche energia fisica e mentale in più da spendere rispetto ai suoi compagni.
Purtroppo per la mia esperienza di pessimo tennista amatoriale trovo molta corrispondenza nelle dinamiche dei processi cognitivi da lei descritti nell’ultimo paragrafo. In particolar modo al servizio, quando la prima non entra e la seconda tremebonda comincia ad infrangersi miseramente in rete, la sensazione che percepisco è esattamente la paralisi di fronte ad una situazione “drammatica” e “senza rimedio”. La mente vede questo e il fisico reagisce di conseguenza. E anche quando il servizio successivo atterra miracolosamente in campo, spesso mi trovo totalmente impreparato a proseguire lo scambio, quasi avessi speso tutto in quel maledetto primo colpo…
È stata semmai una delle poche partite di calcio che sul piano psicologico assomigliavano a quelle di tennis (non viceversa).
Magari anche per quella componente “fortuna del vincitore” che accompagna di solito chi alla fine vincerà il torneo…