L’ITF e la norma sui cambi di nazionalità
L’ITF si è finalmente espressa in merito a una tematica spigolosa e che da troppo tempo dà adito a svariate interpretazioni: dal 01 gennaio 2015 entrerà in vigore infatti la norma secondo cui, un tennista o una tennista che hanno già rappresentato dei colori nazionali per una manifestazione a squadre come la Coppa Davis o la Fed Cup, non potrà rappresentare i colori di un secondo team dopo aver cambiato nazionalità.
Una bella presa di posizione, se paragonata soprattutto allo stato che vige in altri sport e in altre federazioni molto più malleabili riguardo questa problematica: calcio, pallavolo, basket, pallanuoto, atletica leggera, sono solo alcune delle discipline sportive in cui troppe volte assistiamo ad atleti che “indossano” la maglia di un Paese lontano migliaia di chilometri dai loro luoghi d’origine dando il via a commenti maliziosi e che individuano quasi sempre motivazioni economiche dietro cambiamenti di tal genere.
Spesso in maniera impropria infatti, negli sport sopracitati, assistiamo a cambi di bandiera a dir poco forzati, con scene surreali che rendono alla perfezione l’idea di quanto troppe volte determinate situazioni siano discutibili, all’insegna di scelte mosse più dal tornaconto personale (economiche come già detto ma anche la possibilità di essere un atleta di punta in una nazione dove la concorrenza non è molto serrata) piuttosto che dal cuore: come minimo grottesche ad esempio le interviste fatte ad atleti che non hanno alcuna dimestichezza con la lingua del loro nuovo Paese o le premiazioni nelle grandi manifestazioni in cui uno sportivo non conosce l’inno che dovrebbe rappresentarlo e che dovrebbe scuotere la sua coscienza.
Un tennista, almeno che non ci siano motivazioni serie e acclamate che inducano a un suo cambio di nazionalità, non può essere una pedina da piazzare in una nazionale che fa campagna acquisti per rinforzarsi nelle varie competizioni cui prende parte; hanno poca rilevanza per me discorsi campanilistici approssimativi o attaccamento alla Patria: questi purtroppo, e sottolineo purtroppo, sono valori che nel tempo e con la globalizzazione sono ovviamente cambiati, senza poter avere quell’interpretazione univoca e ortodossa riscontrabile ad esempio nel secolo scorso. Ciò che mi preoccupa è invece tutt’altro: in una competizione a squadre dove ad affrontarsi sono le varie nazionali, le dinamiche e i valori dei vari giocatori che scendono in campo dovrebbero essere lo specchio fedele ed equo di ciò che il destino ha generato e riservato per loro. Se la Spagna è stata una terra di campioni degli anni 2000 è giusto che abbia monopolizzato il tennis e le competizioni a squadre (mi riferisco chiaramente al maschile) e che le sue rivali più accreditate abbiano fatto di tutto per forgiare quei talenti, attraverso accurate e attente politiche federali, per scovare giovanissimi su cui investire nella speranza di individuare futuri possibili campioni. È emozionante che la Svizzera provi a vincere la sua prima Coppa Davis grazie alla classe sopraffina di Roger Federer, è comprensibile che gli Stati Uniti dopo un’egemonia consolidata nel tempo attraversino adesso un periodo buio e da cui provare a uscire, per poter essere nuovamente una potenza mondiale del tennis, così come l’Italia e i suoi appassionati si interroghino se le politiche federali vadano nella direzione giusta nel perseguire l’obiettivo principe consistente nella valorizzazione dei suoi tanti e giovani campioncini. Ci sono plurimi fattori che danno vita a campioni protagonisti del circuito, talento e politica federale in primis: tutto ciò non può essere modificato in corsa con discutibili naturalizzazioni.
Voglio vedere sportivi che si emozionino al sentire le note del proprio inno nazionale. Voglio vedere sportivi fare giri di campo con le bandiere dei propri Paesi di origine. Voglio ascoltarli cantare proprio gli inni nazionali. Voglio sentire le loro interviste ricordando le difficoltà affrontate crescendo per diventare quei campioni che tutto possono affrontare e tanto sanno farsi amare dai propri connazionali. È mera utopia? Identità personale e identità territoriale possono ancora coincidere?
Le bandiere non si decidono a tavolino e le ultime recenti macchiette dei continui cambi di nazionalità della kazaka on/off Sesil Karatantcheva, dello sloveno Bedene attratto dalla Gran Bretagna sua patria di adozione, della “contesa” fra Venezuela e Spagna con la forte Garbine Muguruza oggetto del desiderio (senza scomodare le naturalizzazioni di ben altra portata delle campionesse Navratilova e Seles cui abbiamo assistito nel passato), non fanno parte di quello sport pulito che ho nella mente come ideale di vita pura, dimenticando che dietro il business del denaro e delle opportunità da cogliere deve spingere sempre forte l’onda d’urto del proprio io, di quell’essenza vitale che deve caratterizzare la tua vita, sportiva e non, e che dovrebbe corrispondere ai colori della bandiera. Tutto il resto rischia di divenire dietrologia nei più classici processi alle intenzioni.
Alessandro Orecchio
TAG: Coppa Davis, Coppa Davis 2015, Davis/FedCup, Fed Cup, Fed Cup 2015, Notizie dal mondo
1 commento
Che belle parole!
E se uno ha la sfortuna di nascere in un Paese dove la politica Federale non è da lui condivisa (per mille ragioni anche soggettive quindi opinabili) e per questo paga non trovando gli aiuti che meriterebbe ? O semplicemente questi aiuti non li vuole anche se offerti, proprio perché comporterebbero un “asservimento” – che brutta parola, ma rende bene l’idea – non ad una Nazione, ma a delle persone che vorrebbero impostare una carriera in maniera differente da come uno ha programmato ?
Il tennis è uno sport – lo sapete meglio di me – molto particolare, che ha logiche personali (certo anche economiche) che lo differenziano molto da tutti gli altri sport individuali, quindi io lascerei libero arbitrio agli atleti, concordando con ITF sul fatto che, una volta fatta la scelta, non si possa più tornare indietro