Spacca palle: Murray, ritrovare il filo interrotto
Londra, 6 luglio 2014. Dopo una splendida domenica di sole sta calando il tramonto sull’All England Club. Il Centre court di Wimbledon è ormai vuoto. L’erba è consumata nei pressi delle righe di fondo, esausta dopo due settimane di battaglia sportiva. Dove prima l’atmosfera era elettrica ora regna il silenzio, proprio intorno a quel prato dove le due migliori racchette del torneo hanno danzato nell’aria disegnando traiettorie magiche. Si è appena chiusa l’edizione 2014 dei Championships, oltre 15mila fortunati hanno assistito ad un grande spettacolo tra Djokovic e Federer, una finale Slam che resterà nella memoria di molti. Eppure nel rientro a casa l’appassionato british non ha il cuore impazzito di gioia come l’anno scorso, quando poteva gridare “Io c’ero!”. Wimbledon 2013 raccontò una favola: la vittoria di Andy Murray, capace di spazzare via 77 anni di delusioni e di attesa per ritrovare un suddito di sua Maestà di nuovo campione dei Championships. Fu il momento più alto della carriera di Murray, il compimento di un sogno, forse l’impresa di una vita. Ripensando a mente fredda al torneo da poco andato in archivio, è difficile non inserire proprio Murray tra le delusioni.
La difesa del titolo 2013 era complicata, lo sarebbe stata anche se lo scozzese si fosse presentato al via del più prestigioso torneo al mondo nelle migliori condizioni. Così non è stato, e che la sua corsa potesse arrestarsi di colpo era un’ipotesi realistica. Però il modo in cui è uscito nei quarti contro Dimitrov è stato troppo netto, quasi tranciante, per non destare sorpresa in negativo. Ancora una volta al primo ostacolo alto ed insidioso è inciampato. Malamente. Proprio come gli era capitato troppe volte in questa stagione nata male, figlia dei postumi dell’operazione alla schiena dello scorso autunno. C’è chi inizia a chiedersi se forse non abbia fin troppo accelerato la ripresa agonistica compromettendo la preparazione di base, quel fieno in cascina necessario a tirar fuori tutta la propria potenza nei mesi più intensi. Murray ha scelto una strategia opposta: tornare in campo abbastanza velocemente e ritrovare la forma in torneo. Lo disse alla vigilia dell’Australian Open, che affrontò “prendendo quel che viene in modo sereno. So che tornare al top dopo un’operazione del genere richiede tempo e pazienza, ma giocando senza stress tornerò al meglio”. Di tempo ne è passato, ma il suo meglio non arriva proprio…
Dal suo ritorno in campo sono passati 6 mesi, in cui ha giocato non pochissimo (11 tornei e due turni di Davis) ottenendo risultati complessivamente scadenti per la sua classe. Non ha vinto un torneo e non è arrivato nemmeno a giocare una finale. Forse il dato più grave è quello di non esser riuscito a battere nemmeno un top10 nel 2014. Il miglior avversario da lui sconfitto è stato Tsonga (n.11) a Miami, ma è un altro che sta vivendo una stagione assai deludente, quindi non molta gloria in quella vittoria. Alla fine è sorprendente che il suo miglior risultato e torneo sia stato il Roland Garros, dove ha lottato da leone uscendo vincitore da un paio di maratone, trovando poi un avversario troppo forte in Nadal, contro cui aveva giocato meglio a Roma. Ero presente al Roland Garros e pur non entusiasmando sul piano tecnico Andy cresceva partita dopo partita per condizione fisica, velocità, resistenza e fiducia. “Triturato” senza pietà dalla furia di Nadal in semifinale, sulla scia di questa crescita tutti si aspettavano un primo acuto al Queen’s, il lancio verso la difesa del titolo ai Championships. Niente di tutto questo.
Nel torneo “della Regina” arriva al suo angolo Amelie Mauresmo ma soprattutto una cocente delusione contro Stepanek. Radek è una brutta gatta da pelare, conosce la magia del tennis sui prati e può stordirti con attacchi continui non dando mai ritmo; ma la battuta d’arresto di Murray è stata fragorosa perché nelle fasi caldi del match pareva incapace di costruire qualcosa, una reazione tecnica e mentale ad una partita che gli stava scivolando via. E’ una sensazione molto simile a quella provata assistendo alla sua sconfitta contro Dimitrov nei quarti di Wimbledon. Anche ai Championships Andy sembrava in cresciuta soprattutto sul piano fisico. Grazie anche ad un tabellone non impossibile stava salendo di condizione, giorno dopo giorno, incrementando la velocità dei suoi colpi, ritrovando quelle sensazioni che al massimo livello sono tutto; quella facilità nel lasciar andare il braccio a cogliere l’apertura di campo al momento giusto, quegli automatismi dettati da lucidità e fiducia che al salire del livello fanno la differenza tra vittoria e sconfitta. Il tutto ingigantito dallo stimolo del nuovo (e sorprendente) coach, Amelie Mauresmo, ex campionessa francese che s’è buttata in quest’avventura cercando di dare una prospettiva diversa al tennis del suo nuovo pupillo. Quando tutto pareva indirizzato nel verso giusto, con quattro vittorie senza perdere un set, ecco la nettissima sconfitta patita contro Dimitrov, che è stata lo specchio impietoso dei limiti mostrati da Murray quest’anno. Va sottolineato che Grigor ha giocato un ottimo match: consistente, continuo al servizio e nella spinta da fondo, senza pause importanti; col dritto ha preso per primo l’iniziativa dettando i ritmi di gioco, senza subire la diagonale del rovescio (dove lo scozzese è nettamente più forte sul piano squisitamente tecnico) e rischiando di più. A Murray è mancata intensità e lucidità per invertire l’andamento di un match iniziato male. Troppo falloso e corto col diritto, poco “cattivo” e continuo col rovescio, dove ha accettato i back a bassa velocità dell’avversario senza riuscire ad entrare con forza nella palla e girare lo scambio a suo favore. Non ha mai fatto la differenza col servizio (schiena non ancora al top?) ma nemmeno con la risposta, e questo è l’aspetto più grave perché proprio con la risposta e con grande intensità Murray aveva vinto l’anno scorso. Andy sembra giocare “bene” ma tutto il suo tennis viaggia a ritmi bassi, senza scatti impetuosi e senza la capacità di ribaltare le situazioni in cui viene messo sotto, proprio dove era diventato fortissimo. Quel dritto che nel periodo 2011-2013 filava via retto e insidioso oggi latita, tornato più corto o mestamente in rete. Ad aggravare questa “marcia funebre sportiva” sono tornate prepotenti le sue antiche lacune: la tendenza a diventare passivo e conservativo invece di lasciare andare il braccio dopo essersi costruito il punto (o meglio ancora alla prima occasione…), e quella confusione tattica che spesso gli fa prendere decisione errate contro rivali più tosti e concreti. In pratica un netto passo indietro al periodo pre-Lendl. Incolpare Amelie Mauresmo dello Wimbledon fallimentare è ingeneroso e totalmente sbagliato: il miglior Murray latita da tempo. Semmai ad un Murray non in condizione non ha giovato il tentativo disperato di salvare uno Wimbledon che si presentava quasi impossibile con la novità, che alla fine è stata solo una complicazione.
La mancata difesa del titolo 2013 è costata un crollo in classifica al n.10, ma ad esser grave non è il dato statistico quanto la tendenza tecnica ed agonistica. In patria si è scritto molto su di lui, sui problemi e possibili soluzioni. La stampa UK è nota per andarci giù pesante, e così è stato… Se non è facile commentare la gestione dei suoi problemi fisici, l’operazione, tempistica e modalità del suo ritorno ai tornei, si può invece valutare l’impatto della improvvisa e sanguinosa separazione da Lendl, il tutto guardando al futuro prossimo, all’estate sul cemento USA che quasi ogni stagione gli ha fruttato ottimi risultati.
Il focus deve restare la salute atletica: recuperare la massima efficienza e quindi riprendere la massima intensità del suo tennis. Ma la mia sensazione è che l’equilibrio che lo ha portato allo stesso livello degli altri “Big 3” sia più fragile rispetto a quello dei fortissimi rivali, e quindi più complicato da raggiungere prima e mantenere poi. Roger ha così tanto tennis che con buona salute atletica ha ritrovato grandi risultati, nonostante la vecchiaia sportiva incipiente; Rafa sul rosso (e non solo) ha saputo elevare il suo livello, cancellando più di un dubbio sorto da una stagione non così brillante; Novak stesso ha vissuto alti e bassi, conditi da qualche scelta discutibile, ma ha vinto più di tutti e ritrovato il massimo dell’intensità proprio nel match più importante, alzando la seconda coppa dei Championships. Murray è diverso. E’ partito da più lontano ed ha faticato molto di più ad arrivare allo stesso livello agonistico degli altri campionissimi. La sua prestazione top è figlia di uno sforzo superiore, di molti più ingranaggi che devono essere ben oliati, perfettamente allineati e muoversi in estrema sincronia per produrre quel tennis stellare che gli ha permesso di vincere dei Majors. Andy è partito molto più indietro sul piano fisico, ed ha dovuto lavorare duramente per diventare una “bestia” come gli altri; mentalmente le sue insicurezze sono state per anni più forti della sua saldezza sotto pressione, lacuna che veniva fuori soprattutto sulla lunga distanza perché non riusciva tenere al massimo l’intensità e la prestazione. Tecnicamente è un super giocatore, ma ha dovuto lavorare in modo mirato e scientifico per arrivare a far scorrere ogni aspetto in modo automatico e sicuro. Un materiale di altissima qualità che stentava a trovare ordine e lavorare in sincronia. Per questo, problemi fisici a parte – che sottolineo sono la causa scatenante di questa crisi spero momentanea – ritrovare il miglior Murray potrebbe esser più complicato, perché forse oggi manca il tassello che aveva completato il puzzle: Ivan Lendl.
Poche volte in anni recenti un tennista maturo era migliorato così tanto grazie alla mano di un coach. Lendl è stato molto più di un allenatore per Murray. E’ stato una guida, un uomo capace di portare l’esperienza vissuta sulla sua pelle in un team spesso disorganizzato e schizofrenico, razionalizzando idee, risorse, allenamenti, aspetti tattici e tecnici. Lendl è stato come un grande imprenditore che ha preso in mano un’azienda ricca di brevetti che non riusciva a decollare, monetizzando un potenziale enorme.
Ivan è stato il primissimo professionista nel tennis a 360°, non lasciò nulla al caso. Per diventare n.1 in un mondo infestato da un tasso di talento eccezionale non tralasciò alcun aspetto del suo tennis: fisico, tecnico, mentale, agonistico, dell’alimentazione, del riposo, dei materiali, degli spostamenti, della vita familiare e del suo team. Ottimizzava ogni aspetto, con una dedizione, cultura del lavoro e del dettaglio maniacale, quasi fanatica. Un’esperienza ed una visione d’insieme che era sempre mancata alla gestione di Murray e che Lendl ha portato con durezza e rigore, arrivando a risultati straordinari in soli due anni. Lendl è riuscito ad ottimizzare il gioco di Murray, apportando ordine tattico e quindi fiducia, quell’autostima che spesso gli era mancata nelle fasi più calde dei grandi match; è riuscito a farlo diventare non solo più consistente e continuo ma anche più aggressivo, più lucido nel gestire ogni aspetto della prestazione. Più punti con la prima di servizio, più consistente col dritto grazie a cui ricava più winners; quasi cancellati quei momenti di pausa e di passività che erano da sempre il suo punto di debole. Interrotto il lavoro con Lendl proprio nel mezzo della delicata ripresa fisica, Murray sembra regredito in tutti questi aspetti, e senza la basi di un’ottima preparazione diventa quasi impossibile eccellere e giocare al top, in un tennis così fisico e duro.
Cosa aspettarsi a questo punto? L’estate sul cemento USA gli è sempre stata amica, con Flushing Meadows, suo primo acuto in un Major con la finale del 2008 e soprattutto la vittoria del 2012. Però è indispensabile che Andy ritrovi il filo spezzato con la separazione choc da Lendl. Per quelle che sono le qualità di Murray e per come si è evoluto il tennis di vertice, stento a credere che la nouvelle vague della Mauresmo possa da sola farlo diventare così aggressivo ed allo stesso tempo solido da eccellere di nuovo. Bene se il lavoro con la francese potrà dotarlo di qualche arma in più, magari spostandone leggermente il gioco in avanti e rafforzando la seconda di servizio, unico vero punto debole. A sensazione credo che Murray debba avere la forza di ripartire da dove era rimasto con Lendl, l’unico tra i suoi mille coach che era riuscito a cogliere l’essenza del suo tennis e del suo animo, ad avere la sua totale fiducia e quindi ottenere i migliori risultati. Cambiare può servire, ma non ha alcun senso cambiare quella base di lavoro e di metodo che così bene aveva funzionato negli ultimi due anni. C’è chi arriva a dire che lo scozzese abbia compiuto uno sforzo fisico e mentale così importante da aver già esaurito il suo meglio, e che il divorzio da Lendl sia derivato proprio da quello; ossia dalla constatazione che quel percorso delle due stagioni vincenti fosse esaurito ed irripetibile, e che non ci sia stata unità di visione per programmare il futuro. Purtroppo non lo sappiamo, e chissà se mai lo sapremo. Non credo che il Murray stellare di Wimbledon 2013 sia irripetibile, a patto che la schiena torni alla massima efficienza, è una condizione indispensabile. Oltre all’aspetto fisico, ritengo inoltre che solo ritrovando quella continuità e sicurezza che aveva con Lendl a suo fianco potrà tornare a giocare il suo miglior tennis, più che con una svolta tattica data dalla Mauresmo o da un qualsiasi altro coach. Difficile in una carriera al vertice compiere più di una svolta importante, e tutto lascia pensare che la vera svolta sia stata quella operata grazie al lavoro con lo “Zar” Ivan. Due titoli dello Slam, l’Oro alle Olimpiadi e altri successi (e finali) sono a testimoniarlo.
Marco Mazzoni
P.S.: buone vacanze, l’approfondimento settimanale tornerà il 20 agosto
TAG: Andy Murray, Coach, Lendl, Marco Mazzoni, Murray, Spacca Palle
4 commenti
Buona notte più che buone vacanze!!! Zzzzzzzzzz….
Devo dire che ho sempre considerato la formula dei Fab4 come una suggestiva ma fasulla formula giornalistica: troppo ampio il divario fra Andy Murray e Federer-Nadal-Djokovic. Anche ai bei tempi, non mi sarei spinto oltre la formula del 3+1: insomma, un tennista né equiparabile al Re e ai suoi Alfieri, né riducibile al rango di semplice “primo dei secondi”. Una specie di tennista-cuscinetto fra il trio di marziani e gli altri.
Sono convinto che il ranking tornerà in breve tempo ad arridere a Murray; sulla consistenza dei futuri successi, invece, sarei molto più prudente. In altri termini, confido nel fatto che lo scozzese si riprenderà presto e che in un lasso di tempo ragionevolmente breve abbandonerà i bassifondi della Top Ten; mentre temo che difficilmente riuscirà a rivincere uno slam. Anche perché – e questo vale un po’ per tutti i tennisti – non dipenderà solo da lui e dalla sua eventuale ritrovata vena, ma anche dai destini dei tre alieni, oltreché dalla velocità con cui le nuove leve, a lui potenzialmente superiori, guadagneranno stabilmente la ribalta.
Aggiungo una considerazione riguardo a un aspetto che reputo niente affatto secondario, e che l’articolo sfiora appena. A mio avviso, solo la tipica ipocrisia inglese, unita al classico pragmatismo anglosassone, poteva dichiarare terminato il grande digiuno. Il vero “eletto”, infatti, era Tim Henman, non Andy Murray. Questo è bene ricordarlo anche in considerazione del momento storico che i britannici si apprestano a vivere, e cioè il referendum sullo status della Scozia, ulteriore conferma del fatto che scozzesi e inglesi sono cose diverse. Murray è stato “adottato” (più che altro dal popolo, in verità) perché andava assolutamente interrotta l’onta dei 77 anni di astinenza; ma quando inizierà la sua fase di declino, Murray rimarrà inglese solo negli almanacchi, mentre nei fatti tornerà ad essere uno zoticone del nord. E visto che Wimbledon è “roba loro”, la “Murray Mountain” tornerà ad essere ciò che in realtà è sempre stata: la “Henman Hill” (fino alla successiva puntata)…
Murray è effettivamente uno scalino, anche se non tanto grande, inferiore a Federer, Djokovic e Nadal, questo è indiscutibile. Solo in particolari periodi di forma fisica, tennistica e mentale riesce ad elevarsi a quel livello.
Un’operazione alla schiena è talmente delicata, anche per ritrovare una nuova corretta postura, che sei mesi sono troppo pochi per capire come vanno le cose, credo che si debbano fare i conti tra un anno.
Certo non è bello vedere un giocatore talentuoso come Murray essere spesso tanto conservativo e difensivo, limitandosi a giocare in modo passivo, fidandosi delle sue straordinarie capacità di recuperare palle. Così però finisce spesso per perdere con i più forti.
Buone vacanze anche a te Marco.
Hai contributo a rendere quest’annata di tennis più interessante del solito, con articoli di rara bellezza che hanno saputo combinare perfettamente la sensibilità umana e sportiva con la competenza tecnica e l’analisi del gioco. I tuoi incipit sanno sempre trasportarti sul luogo dell’azione e sin dalle prime righe si può riconoscere il tuo stile. Ma anche i contenuti sono straordinari. Uno per tutti, ho visto giocare Thiem leggendo un tuo articolo pur non avendolo mai visto giocare…
Raramente ho letto di sport assaporando toni letterari, e tu sei riuscito a darmi questa piacevole e impagabile sensazione.
A presto rileggerti e buone cose.
P.S. Su Murray, mi dispiace che non sia riuscito a rendere nel tempo, sarebbe stato bello vederlo in pianta stabile a contendersi con gli altri tre Fab i titoli dello slam, ma purtroppo è vero quello che sostieni, ossia che le pause mentali e la necessità di essere sempre al top in tutti gli aspetti ne hanno limitato molto il potenziale. Resta pur sempre l’unico tennista che ha vinto due slam negli ultimi dodici anni, nell’epoca di Federer, Nadal e Djiokovic, quindi tanto di cappello.